Il bacio della pantera, 16Civico, Pescara, 2024
A cura di Matteo Di Cintio e Piotr Hanzelewicz
A cura di Matteo Di Cintio e Piotr Hanzelewicz
PANE E TERRA (BACI E ROSE)
baci e pane (terra e rose)
pane e rose (baci e terra)
di Piotr Hanzelewicz
PREMESSA
Anni fa parlavo con Alessia Armeni degli studi degli artisti (intendo gli atelier), e lei mi disse che ci vuole un po' di tempo per trovare la propria dimensione quando ci si sposta in uno studio nuovo. Di certo il lavoro ne viene in qualche modo cambiato ed anche lo spazio tenderà poi a prendere la forma del lavoro. Cos'è uno studio? Credo che per ogni artista rappresenti una dimensione unica in un rapporto (conflittuale-viscerale-noioso-obsoleto-necessario-estetizzante-dispettoso – e mi viene da pensare ai contributi fotografici del monitoraggio “Panorama” all'interno della Quadriennale di Roma) tra desiderio e ossessione, tra protettiva zona di comfort e sala d'attesa dal dentista. La residenza negli spazi di 16 Civico è un modo di affrancarsi dal proprio studio e provarsi in un altrove. Ovvio. Ma a questo punto le cose diventano complesse perché la luce ha invaso gli spazi in una maniera che accade solo in quell'unico posto, con quelle finestre, con quella esposizione, con quelle pareti rovinate, sgarrupate, che chiamano un lavoro che tenga presente in modo consapevole il qui ed ora della luce e del tempo, del bianco e del colore e dello scivolare fino a sfumare, fino a smaterializzarsi e svanire in un pulviscolo di molecole.
CAPITOLO 1
O del depistaggio
(In questo capitolo vengono messe in luce alcune strategie attuate per trarsi di impaccio – ovvero ritrarsi - un attimo prima di ritrarsi.)
L'autoritratto è in pittura un confronto ed un incontro con sé stessi che attiene alla sfera di una osservazione profonda dei propri mutamenti, interni ed esterni. Può essere strumento violento di conoscenza del proprio intimo. Cosa significa ritrarsi? Di certo è bello, in quanto vago ed ambiguo, pensare che ritrarre sé stessi assuma gli stessi caratteri e fonemi dello scostarsi, ritrarsi come rinunciare, decentrare, sfocare, scivolare, sfumare. Nel momento in cui ho letto il titolo della mostra ed ho visto il film da cui prende pretestuosamente spunto, mi è saltata in mente la pantera presente nello studio di Davide Serpetti, in agguato tra le verdi foglie, nera e pronta ad uno scatto spietato. Le immagini della pellicola del 1943 che dà il titolo alla mostra, non mi lasciano dubbi: la presenza di Alessia negli spazi di 16 Civico sarebbe stata inquieta e feroce, caratterizzata da un famelico brontolio desideroso di appropriarsi di quello spazio e di far propria divorandola – la mostra. Nell'ultimo studio visit nel suo spazio romano, avevo incontrato l'approdo pop ad un immaginario dell'infanzia di Alessia Armeni, saltellare leggero nel rigore formale del suo lavoro. Avevo persino visto la pantera, o almeno, un'altra sua versione... Avevo perfino visto il modello!
Eppure no, nella mia mente la pantera di 16 Civico doveva essere nera, doveva essere vera.
Eccolo qui un primo depistaggio, a dare un timbro che non ci lascerà per tutta la mostra: siamo accolti dalla musica di Henry Mancini ed entriamo molleggianti e con un'aria di sufficienza, gli occhi quasi chiusi, consapevoli di una superiorità intellettuale, da mente criminale, mentre ci spostiamo in cucina...
Questa pantera non è nera!
Ed ecco perché la grafica della locandina! Ne “Il bacio della pantera”, intendo il film, non è chiaro se davvero la protagonista si trasformi nell'animale. La maledizione che è convinta di incarnare forse è solo un inganno: il ritrovamento del corpo dell'animale investito nella scena finale chiude ad anello l'immagine iniziale di uno schizzo preparatorio (sempre opera della protagonista/artista) in cui il felino era stato trafitto da una spada.
Ma se io la penso nera e poi nera non è, e nemmeno Rosa,
cosa troverò nel suo vaso, cosa?
CAPITOLO 2
Lo studio in una scatola.
E la scatola? In valigia (vuota!)
Tutto è stato architettato a dovere. Alcuni artisti scelgono di vivere nello stesso ambiente in cui lavorano in modo da nutrirsi di un'ossessione senza abbandonarla mai, alcuni artisti scelgono un luogo altro in modo da poter avere il conforto di un'altra vita, alcuni artisti eccetera eccetera.
Non mi dilungherò a chiacchierare di quello che fanno gli artisti, non mi importa poi molto; anche perché ognuno credo se la viva in modo profondamente diverso. Lavorare fuori dalla propria abitudine, dal proprio habitus e dal proprio habitat, comporta un maggiore fattore di rischio e di conseguenza una maggiore opportunità di vittoria o sconfitta. Cosa c'è di meglio che prendere il proprio studio e inserirlo in un altro spazio? La residenza è in fondo trasformare un posto trasformando il proprio lavoro.
L'immagine ripresa dal film di una pantera in gabbia, utilizzata nella comunicazione della mostra, non è solo la narrazione pretestuosa di un depistaggio, non è solamente un attingere (apparentemente ironico) all'iconosfera Pop della propria infanzia: si tratta di una citazione letterale, anzi, di una trasposizione della condizione dell'artista, che in maniera inquieta si aggira famelica nel proprio studio, imprigionata ed al tempo stesso libera di muoversi tra le sbarre da cui filtra la straordinaria luce che impatta sui muri sporchi e sulle tele. La protagonista infatti ritrae la pantera chiusa in gabbia e simbolicamente la uccide nello schizzo preparatorio di cui sopra. A questo punto attuare il protocollo dei 24 hours paintings, è un appiglio rassicurante rispetto ad uno spazio nuovo e diventa anche fulcro per spingersi oltre. A ben vedere, mi accorgo solamente ora, guardando la prima sala (quella entrando subito a sinistra dello spazio di 16 Civico), che le linee tra un'ora e un'altra del painting, come anche le pennellate dei due raffinati studi, richiamano la griglia di una gabbia.
Forse questo è lo studio, forse è questo che accade intorno ad Alessia-artista-pantera nel momento in cui si trova immersa nel ritrarsi, in uno specchio che aggetta e getta nell'abisso, ma da cui lei fa giusto in tempo a ritrarsi.
Gli angoli dipinti, specchiati nella tela, restituiscono un'assenza: la consistenza mancante della figura scostatasi in là un istante prima di essere dipinta. E nel riverbero vibrante dell'immagine riflessa, a differenza degli Arnolfini, a dispetto della rottura di campo de Las meninas, l'artista non c'è. Nella fuga infinita della voragine aperta della mise en abyme, l'artista è fuggita un istante prima di vacillare e cadere, vittima del proprio pennello. È saltata via lasciando un'immagine décalé.
Le linee che marcano il ciclo delle 24 ore, il tempo (presenza ingombrante di qualsiasi gabbia), i fili che corrono lungo le linee di costruzione degli interni, inondati improvvisamente dalla luce, si spalmano in sfumature morbide da pennellate sottili che ricordano il collo di Olympia.
È da lì che la pantera è uscita, da quella caduta di regole, di sbarre, di linee. La pantera è “decalata” dall'immagine décalé e va in cucina a prepararsi un cocktail o una tagliata di manzo.
UN EPILOGO di sogno verso il vuoto eterno
Peter Sellers, antieroe imbranato di Hollywood Party, confuso e incompreso ispettore Clouseau a caccia della Pantera, dopo il caleidoscopio del Dr. Strangelove, saluterà il suo pubblico con il meraviglioso giardiniere Chance che andrà oltre le regole scivolando (o decalando) Oltre il giardino.
baci e pane (terra e rose)
pane e rose (baci e terra)
di Piotr Hanzelewicz
PREMESSA
Anni fa parlavo con Alessia Armeni degli studi degli artisti (intendo gli atelier), e lei mi disse che ci vuole un po' di tempo per trovare la propria dimensione quando ci si sposta in uno studio nuovo. Di certo il lavoro ne viene in qualche modo cambiato ed anche lo spazio tenderà poi a prendere la forma del lavoro. Cos'è uno studio? Credo che per ogni artista rappresenti una dimensione unica in un rapporto (conflittuale-viscerale-noioso-obsoleto-necessario-estetizzante-dispettoso – e mi viene da pensare ai contributi fotografici del monitoraggio “Panorama” all'interno della Quadriennale di Roma) tra desiderio e ossessione, tra protettiva zona di comfort e sala d'attesa dal dentista. La residenza negli spazi di 16 Civico è un modo di affrancarsi dal proprio studio e provarsi in un altrove. Ovvio. Ma a questo punto le cose diventano complesse perché la luce ha invaso gli spazi in una maniera che accade solo in quell'unico posto, con quelle finestre, con quella esposizione, con quelle pareti rovinate, sgarrupate, che chiamano un lavoro che tenga presente in modo consapevole il qui ed ora della luce e del tempo, del bianco e del colore e dello scivolare fino a sfumare, fino a smaterializzarsi e svanire in un pulviscolo di molecole.
CAPITOLO 1
O del depistaggio
(In questo capitolo vengono messe in luce alcune strategie attuate per trarsi di impaccio – ovvero ritrarsi - un attimo prima di ritrarsi.)
L'autoritratto è in pittura un confronto ed un incontro con sé stessi che attiene alla sfera di una osservazione profonda dei propri mutamenti, interni ed esterni. Può essere strumento violento di conoscenza del proprio intimo. Cosa significa ritrarsi? Di certo è bello, in quanto vago ed ambiguo, pensare che ritrarre sé stessi assuma gli stessi caratteri e fonemi dello scostarsi, ritrarsi come rinunciare, decentrare, sfocare, scivolare, sfumare. Nel momento in cui ho letto il titolo della mostra ed ho visto il film da cui prende pretestuosamente spunto, mi è saltata in mente la pantera presente nello studio di Davide Serpetti, in agguato tra le verdi foglie, nera e pronta ad uno scatto spietato. Le immagini della pellicola del 1943 che dà il titolo alla mostra, non mi lasciano dubbi: la presenza di Alessia negli spazi di 16 Civico sarebbe stata inquieta e feroce, caratterizzata da un famelico brontolio desideroso di appropriarsi di quello spazio e di far propria divorandola – la mostra. Nell'ultimo studio visit nel suo spazio romano, avevo incontrato l'approdo pop ad un immaginario dell'infanzia di Alessia Armeni, saltellare leggero nel rigore formale del suo lavoro. Avevo persino visto la pantera, o almeno, un'altra sua versione... Avevo perfino visto il modello!
Eppure no, nella mia mente la pantera di 16 Civico doveva essere nera, doveva essere vera.
Eccolo qui un primo depistaggio, a dare un timbro che non ci lascerà per tutta la mostra: siamo accolti dalla musica di Henry Mancini ed entriamo molleggianti e con un'aria di sufficienza, gli occhi quasi chiusi, consapevoli di una superiorità intellettuale, da mente criminale, mentre ci spostiamo in cucina...
Questa pantera non è nera!
Ed ecco perché la grafica della locandina! Ne “Il bacio della pantera”, intendo il film, non è chiaro se davvero la protagonista si trasformi nell'animale. La maledizione che è convinta di incarnare forse è solo un inganno: il ritrovamento del corpo dell'animale investito nella scena finale chiude ad anello l'immagine iniziale di uno schizzo preparatorio (sempre opera della protagonista/artista) in cui il felino era stato trafitto da una spada.
Ma se io la penso nera e poi nera non è, e nemmeno Rosa,
cosa troverò nel suo vaso, cosa?
CAPITOLO 2
Lo studio in una scatola.
E la scatola? In valigia (vuota!)
Tutto è stato architettato a dovere. Alcuni artisti scelgono di vivere nello stesso ambiente in cui lavorano in modo da nutrirsi di un'ossessione senza abbandonarla mai, alcuni artisti scelgono un luogo altro in modo da poter avere il conforto di un'altra vita, alcuni artisti eccetera eccetera.
Non mi dilungherò a chiacchierare di quello che fanno gli artisti, non mi importa poi molto; anche perché ognuno credo se la viva in modo profondamente diverso. Lavorare fuori dalla propria abitudine, dal proprio habitus e dal proprio habitat, comporta un maggiore fattore di rischio e di conseguenza una maggiore opportunità di vittoria o sconfitta. Cosa c'è di meglio che prendere il proprio studio e inserirlo in un altro spazio? La residenza è in fondo trasformare un posto trasformando il proprio lavoro.
L'immagine ripresa dal film di una pantera in gabbia, utilizzata nella comunicazione della mostra, non è solo la narrazione pretestuosa di un depistaggio, non è solamente un attingere (apparentemente ironico) all'iconosfera Pop della propria infanzia: si tratta di una citazione letterale, anzi, di una trasposizione della condizione dell'artista, che in maniera inquieta si aggira famelica nel proprio studio, imprigionata ed al tempo stesso libera di muoversi tra le sbarre da cui filtra la straordinaria luce che impatta sui muri sporchi e sulle tele. La protagonista infatti ritrae la pantera chiusa in gabbia e simbolicamente la uccide nello schizzo preparatorio di cui sopra. A questo punto attuare il protocollo dei 24 hours paintings, è un appiglio rassicurante rispetto ad uno spazio nuovo e diventa anche fulcro per spingersi oltre. A ben vedere, mi accorgo solamente ora, guardando la prima sala (quella entrando subito a sinistra dello spazio di 16 Civico), che le linee tra un'ora e un'altra del painting, come anche le pennellate dei due raffinati studi, richiamano la griglia di una gabbia.
Forse questo è lo studio, forse è questo che accade intorno ad Alessia-artista-pantera nel momento in cui si trova immersa nel ritrarsi, in uno specchio che aggetta e getta nell'abisso, ma da cui lei fa giusto in tempo a ritrarsi.
Gli angoli dipinti, specchiati nella tela, restituiscono un'assenza: la consistenza mancante della figura scostatasi in là un istante prima di essere dipinta. E nel riverbero vibrante dell'immagine riflessa, a differenza degli Arnolfini, a dispetto della rottura di campo de Las meninas, l'artista non c'è. Nella fuga infinita della voragine aperta della mise en abyme, l'artista è fuggita un istante prima di vacillare e cadere, vittima del proprio pennello. È saltata via lasciando un'immagine décalé.
Le linee che marcano il ciclo delle 24 ore, il tempo (presenza ingombrante di qualsiasi gabbia), i fili che corrono lungo le linee di costruzione degli interni, inondati improvvisamente dalla luce, si spalmano in sfumature morbide da pennellate sottili che ricordano il collo di Olympia.
È da lì che la pantera è uscita, da quella caduta di regole, di sbarre, di linee. La pantera è “decalata” dall'immagine décalé e va in cucina a prepararsi un cocktail o una tagliata di manzo.
UN EPILOGO di sogno verso il vuoto eterno
Peter Sellers, antieroe imbranato di Hollywood Party, confuso e incompreso ispettore Clouseau a caccia della Pantera, dopo il caleidoscopio del Dr. Strangelove, saluterà il suo pubblico con il meraviglioso giardiniere Chance che andrà oltre le regole scivolando (o decalando) Oltre il giardino.
A passo felpato verso la luce.
La questione della soggettività nella pittura di Alessia Armeni
Matteo Di Cintio
Vi propongo di partire da una citazione, da utilizzare a mo’ di esergo per il nostro discorso. Si tratta di un passaggio complesso di Che cos’è la filosofia?, ultimo saggio del mercuriale sodalizio fra Gilles Deleuze e Felix Guattari. Parlando dell’arte, e in particolare dell’arte visiva, i due filosofi francesi osservano che il suo scopo è quello di:
strappare il percetto alle percezioni di oggetto e agli stati di un soggetto percipiente, di strappare l’affetto alle affezioni come passaggio di uno stato a un altro. Estrarre un blocco di sensazioni, un puro essere di sensazione.[1]
Il passo è decisamente problematico e merita una sosta riflessiva, anche solo per scorgervi un’atipicità di chi, come i due autori, hanno fatto del flusso inventivo, del movimento rizomatico, del divenire, dei concatenamenti macchinici desideranti la cifra della propria caustica filosofia. Affermare, inaspettatamente, «l’autoposizione dell’opera d’arte [...] e il suo conservarsi al di là dell’artista e del fruitore»[2] significa, per Deleuze e Guattari, cogliere la capacità dell’opera artistica di trattenere sensazioni e affetti sganciati dall’esperienzialità degli attori che orbitano attorno all’opera stessa, ossia dell’artista che del fruitore. Ciò determinerebbe, se volessimo radicalizzare il ragionamento, che c’è opera d’arte se – e soltanto se – quest’ultima è accompagnata da un dissolvimento in primis dell’artista. Tale sparizione sancirebbe l’indipendenza dell’opera, la sua capacità di sostenersi da sé per essere concentrazione di stati percettivi e affettivi disarticolati dal vissuto soggettivo. Parlare della pittura di Alessia Armeni implica, in qualche modo, accingersi alla questione dell’indipendenza dell’opera. Lo ha recentemente sottolineato la curatrice Gaia Bobò, quando scrive che i suoi dipinti «vivono di vita propria, senza doversi vincolare a soluzioni spaziali scenografiche, capaci di affermarsi come entità assolute».[3] Ma è anche vero che in questo movimento che dal gesto pittorico arriva alla messa in forma di una concentrazione energetica autonoma, “respirabile” in ogni sua tela, Armeni dà prova che fare arte non significa affatto suggellare l’inabissamento dell’artista, bensì nobilitarne l’operato attraverso il lascito di tracce, vere e proprie schegge di soggettività. Queste s’incistano nell’opera per poterla rendere prodotto estetico, centro catalizzatore di forze che delineano l’adempimento dell’artista nel suo rapporto con il reale. Non screditando del tutto le posizioni deleuziane-guattariane, potremmo dire che l’opera di Armeni sosta sinuosamente ed elegantemente nel limitare di due campi d’azione: la vertigine trascendentale e disancorante dell’assoluto mirante l’autonomia del realizzato e il movimento delle tracce soggettive che si ripetono e che danno corpo, o meglio, nominazione, agli elementi che compongono la pittura. Proprio su questo secondo campo vorremmo operare qualche affondo, e procediamo distinguendone, per usare un altro termine caro a Deleuze, due “pieghe”.
Il movimento della luce come perturbante
Senza ombra di dubbio, possiamo sostenere che ciò che torna costantemente nell’opera di Armeni è il carattere multiforme e variabile dell’intensità della luce, o meglio è il maneggiamento di tale carattere. La luce per l’artista romana non è solo l’interlocutore privilegiato del processo di rappresentazione del mondo, ma un’alterità debordante che irradia la percezione, permettendo agli oggetti e spazi della realtà di esser colti (e rappresentati su tela) mai in uno stato di quiete cromatica. Il potere della luce, per la poetica di Armeni, si configura come l’accoglimento di una “colorimetria” da sperimentare nel lavorio delle pennellate e da codificare nella realizzazione del quadro. Si tratta, a ben vedere, di un processo certosino di disciplina dell’osservazione, portato ai suoi estremi nello sforzo della visione e nella regolamentazione di ciò che s’avvera. Lo si coglie bene nell’opera site-specific della serie 24h pantings, dove lo spazio della tela è suddiviso in tante porzioni di colore, quante sono le variabili del cambiamento di luce su un muro durante il giorno. Armeni giace lì, di fronte alla variabilità, cercando di “ingabbiarla” e trarne un’essenza pura, scevra dal contesto spazio-temporale. Ma per quanto regolamentata, si avverte nell’opera una energia che difficilmente s’imbriglia nelle maglie del supporto, ma anzi nutre un’esigenza d’espansione, alimentata dalle bordature arancioni che contornano il perimetro della tela. La luce per Alessia Armeni è per eccellenza il carattere estimo del proprio atto artistico, perché ciò che affiora come esteriore, Altro, è al contempo ciò che di più intimo sottende l’opera. Jacques Lacan è stato il primo ad utilizzare il termine extimité proprio per indicare l’alterità che abita la nostra intimità. Un antesignano freudiano è rintracciabile nel concetto di Unheimliche, perturbante. Come scrive Giovanni Stanghellini, per chiarificare quest’aporia della soggettività umana, «ciò che è più intimo non è un punto di trasparenza, quanto piuttosto un punto di opacità»[4]. Ed è proprio una opacità sottile e costante a muoversi nei meandri degli effetti di luce delle opere, conturbando la colorazione e traducendo quel moto trasformativo che (dis)orienta la nostra pulsione scopica. Armeni ne fa una cifra stilistica, che alimenta sia la visione dell’esterno (le porzioni di architettura assunte a dignità d’osservazione) sia la percezione dei personaggi rappresentati che costellano il suo immaginario infantile. A tal proposito, la Pantera che sgambetta sorniona al di là dell’ingresso dello spazio espositivo (Out of the Pink, 2024) non è più la Pantera Rosa, la luce la vivifica di una natura nuova muovendola sinuosamente tra intimità ed esteriorità, già conosciuto e non ancora introiettato. La stessa parola usata per indicare il felino è l’unione di pan e theros, “tutto” e “bestia”. Come non approssimarla al carattere misterico e conturbante dell’alterità che ci abita?
La nominazione
Un particolare non potrà sfuggire all’attento fruitore dell’opera di Armeni. Direttamente sulla tela, nei pressi dei colori che “intingono” le forme e le figure, si potranno leggere dei sintagmi. Delle parole, quotidiane o inusitate, poetiche o prosastiche, sfilacciate o articolate da metonimie, metafore, iperboli e ossimori. Dimorano lì, proprio dove la natura poliedrica dell’intensità di luce ha fatto il suo corso trasformativo e ha sostato nella pennellata dell’artista, e nominano ciò che si apprende, la nascita di uno “spettrofotometro” inedito e inaudito. La variabilità del colore sobilla l’atto creativo dell’artista al punto tale da “costringere” una nominazione della stessa variabilità, seppur minima e sottile, raggrumata in parole che sospingono verso un aldilà del senso, che lambiscono la significazione di una sensazione che non può essere totalmente simbolizzata. Una traccia di soggettività si insinua in quell’atto del nominare che accompagna la rappresentazione dell’irrappresentabile. Armeni ci accompagna al cuore di quella contraddizione che abita il linguaggio umano, diviso fra semantizzazione e pura letteralità: da un lato costruttore di maglie simboliche attraverso cui esperire il mondo; dall’altro sciame di significanti che fanno segno “fuori dal senso”, dal simbolico (la lingua della poesia ad esempio). Le parole utilizzate vacillano fra queste due declinazioni, si decompongono e si condensano per permettere ad Alessia Armeni di abbracciare il mutevole campo del colore, di saperci fare con quel cangiante accadere che è luce.
[1] Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), Einaudi, Torino, 2002, p. 165.
[2] Daniela Angelucci, Là fuori. La filosofia e il reale, ombre corte, Verona, 2023, p. 34
[3] Studio visit di Gaia Bobò, «https://quadriennalediroma.org/alessia-armeni/».
[4] Giovanni Stanghellini, Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura, Raffaello Cortina, Milano, 2017, p. 46.
La questione della soggettività nella pittura di Alessia Armeni
Matteo Di Cintio
Vi propongo di partire da una citazione, da utilizzare a mo’ di esergo per il nostro discorso. Si tratta di un passaggio complesso di Che cos’è la filosofia?, ultimo saggio del mercuriale sodalizio fra Gilles Deleuze e Felix Guattari. Parlando dell’arte, e in particolare dell’arte visiva, i due filosofi francesi osservano che il suo scopo è quello di:
strappare il percetto alle percezioni di oggetto e agli stati di un soggetto percipiente, di strappare l’affetto alle affezioni come passaggio di uno stato a un altro. Estrarre un blocco di sensazioni, un puro essere di sensazione.[1]
Il passo è decisamente problematico e merita una sosta riflessiva, anche solo per scorgervi un’atipicità di chi, come i due autori, hanno fatto del flusso inventivo, del movimento rizomatico, del divenire, dei concatenamenti macchinici desideranti la cifra della propria caustica filosofia. Affermare, inaspettatamente, «l’autoposizione dell’opera d’arte [...] e il suo conservarsi al di là dell’artista e del fruitore»[2] significa, per Deleuze e Guattari, cogliere la capacità dell’opera artistica di trattenere sensazioni e affetti sganciati dall’esperienzialità degli attori che orbitano attorno all’opera stessa, ossia dell’artista che del fruitore. Ciò determinerebbe, se volessimo radicalizzare il ragionamento, che c’è opera d’arte se – e soltanto se – quest’ultima è accompagnata da un dissolvimento in primis dell’artista. Tale sparizione sancirebbe l’indipendenza dell’opera, la sua capacità di sostenersi da sé per essere concentrazione di stati percettivi e affettivi disarticolati dal vissuto soggettivo. Parlare della pittura di Alessia Armeni implica, in qualche modo, accingersi alla questione dell’indipendenza dell’opera. Lo ha recentemente sottolineato la curatrice Gaia Bobò, quando scrive che i suoi dipinti «vivono di vita propria, senza doversi vincolare a soluzioni spaziali scenografiche, capaci di affermarsi come entità assolute».[3] Ma è anche vero che in questo movimento che dal gesto pittorico arriva alla messa in forma di una concentrazione energetica autonoma, “respirabile” in ogni sua tela, Armeni dà prova che fare arte non significa affatto suggellare l’inabissamento dell’artista, bensì nobilitarne l’operato attraverso il lascito di tracce, vere e proprie schegge di soggettività. Queste s’incistano nell’opera per poterla rendere prodotto estetico, centro catalizzatore di forze che delineano l’adempimento dell’artista nel suo rapporto con il reale. Non screditando del tutto le posizioni deleuziane-guattariane, potremmo dire che l’opera di Armeni sosta sinuosamente ed elegantemente nel limitare di due campi d’azione: la vertigine trascendentale e disancorante dell’assoluto mirante l’autonomia del realizzato e il movimento delle tracce soggettive che si ripetono e che danno corpo, o meglio, nominazione, agli elementi che compongono la pittura. Proprio su questo secondo campo vorremmo operare qualche affondo, e procediamo distinguendone, per usare un altro termine caro a Deleuze, due “pieghe”.
Il movimento della luce come perturbante
Senza ombra di dubbio, possiamo sostenere che ciò che torna costantemente nell’opera di Armeni è il carattere multiforme e variabile dell’intensità della luce, o meglio è il maneggiamento di tale carattere. La luce per l’artista romana non è solo l’interlocutore privilegiato del processo di rappresentazione del mondo, ma un’alterità debordante che irradia la percezione, permettendo agli oggetti e spazi della realtà di esser colti (e rappresentati su tela) mai in uno stato di quiete cromatica. Il potere della luce, per la poetica di Armeni, si configura come l’accoglimento di una “colorimetria” da sperimentare nel lavorio delle pennellate e da codificare nella realizzazione del quadro. Si tratta, a ben vedere, di un processo certosino di disciplina dell’osservazione, portato ai suoi estremi nello sforzo della visione e nella regolamentazione di ciò che s’avvera. Lo si coglie bene nell’opera site-specific della serie 24h pantings, dove lo spazio della tela è suddiviso in tante porzioni di colore, quante sono le variabili del cambiamento di luce su un muro durante il giorno. Armeni giace lì, di fronte alla variabilità, cercando di “ingabbiarla” e trarne un’essenza pura, scevra dal contesto spazio-temporale. Ma per quanto regolamentata, si avverte nell’opera una energia che difficilmente s’imbriglia nelle maglie del supporto, ma anzi nutre un’esigenza d’espansione, alimentata dalle bordature arancioni che contornano il perimetro della tela. La luce per Alessia Armeni è per eccellenza il carattere estimo del proprio atto artistico, perché ciò che affiora come esteriore, Altro, è al contempo ciò che di più intimo sottende l’opera. Jacques Lacan è stato il primo ad utilizzare il termine extimité proprio per indicare l’alterità che abita la nostra intimità. Un antesignano freudiano è rintracciabile nel concetto di Unheimliche, perturbante. Come scrive Giovanni Stanghellini, per chiarificare quest’aporia della soggettività umana, «ciò che è più intimo non è un punto di trasparenza, quanto piuttosto un punto di opacità»[4]. Ed è proprio una opacità sottile e costante a muoversi nei meandri degli effetti di luce delle opere, conturbando la colorazione e traducendo quel moto trasformativo che (dis)orienta la nostra pulsione scopica. Armeni ne fa una cifra stilistica, che alimenta sia la visione dell’esterno (le porzioni di architettura assunte a dignità d’osservazione) sia la percezione dei personaggi rappresentati che costellano il suo immaginario infantile. A tal proposito, la Pantera che sgambetta sorniona al di là dell’ingresso dello spazio espositivo (Out of the Pink, 2024) non è più la Pantera Rosa, la luce la vivifica di una natura nuova muovendola sinuosamente tra intimità ed esteriorità, già conosciuto e non ancora introiettato. La stessa parola usata per indicare il felino è l’unione di pan e theros, “tutto” e “bestia”. Come non approssimarla al carattere misterico e conturbante dell’alterità che ci abita?
La nominazione
Un particolare non potrà sfuggire all’attento fruitore dell’opera di Armeni. Direttamente sulla tela, nei pressi dei colori che “intingono” le forme e le figure, si potranno leggere dei sintagmi. Delle parole, quotidiane o inusitate, poetiche o prosastiche, sfilacciate o articolate da metonimie, metafore, iperboli e ossimori. Dimorano lì, proprio dove la natura poliedrica dell’intensità di luce ha fatto il suo corso trasformativo e ha sostato nella pennellata dell’artista, e nominano ciò che si apprende, la nascita di uno “spettrofotometro” inedito e inaudito. La variabilità del colore sobilla l’atto creativo dell’artista al punto tale da “costringere” una nominazione della stessa variabilità, seppur minima e sottile, raggrumata in parole che sospingono verso un aldilà del senso, che lambiscono la significazione di una sensazione che non può essere totalmente simbolizzata. Una traccia di soggettività si insinua in quell’atto del nominare che accompagna la rappresentazione dell’irrappresentabile. Armeni ci accompagna al cuore di quella contraddizione che abita il linguaggio umano, diviso fra semantizzazione e pura letteralità: da un lato costruttore di maglie simboliche attraverso cui esperire il mondo; dall’altro sciame di significanti che fanno segno “fuori dal senso”, dal simbolico (la lingua della poesia ad esempio). Le parole utilizzate vacillano fra queste due declinazioni, si decompongono e si condensano per permettere ad Alessia Armeni di abbracciare il mutevole campo del colore, di saperci fare con quel cangiante accadere che è luce.
[1] Gilles Deleuze, Félix Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), Einaudi, Torino, 2002, p. 165.
[2] Daniela Angelucci, Là fuori. La filosofia e il reale, ombre corte, Verona, 2023, p. 34
[3] Studio visit di Gaia Bobò, «https://quadriennalediroma.org/alessia-armeni/».
[4] Giovanni Stanghellini, Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura, Raffaello Cortina, Milano, 2017, p. 46.