Ammira i bianchi di Genova, 2017
Stampa digitale UV su forex, d 17,78 cm
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CAMMINARE L'ORIZZONTE. DERIVA
Ermanno Cristini in naufragio con:
Alessia Armeni, Simona Barbera, Antonio Catelani, Ronny Faber Dahl, Obèlo (Claude Marzotto e Maia Sambonet)
Contributo di testo di Gabriele Tosi
Opening Giovedi 16 Novembre ore 18
SPACE 4235, Genova
Via Goito 8
16 Novembre - 10 Dicembre 2017
Camminare l’orizzonte: l’articolo determinativo indica uno stare “dentro”, e non “su”. Poiché l’orizzonte è per definizione un altrove, che sfugge continuamente allo sguardo, Camminare l’orizzonte è uno stare dentro l’altrove, con quella continuità che è suggerita dall’idea stessa di linea.
Forse è lungo quella linea che si perdono sia lo sguardo del viandante di Friedrich che la rotta della barca di Bas Jan Ader perché se l’orizzonte non ha luogo il viaggio che esso chiama è un viaggio senza scopo, quel viaggio che si realizza nel viandare e che ha il naufragio come presupposto.
Da questo punto di vista allora Camminare l’orizzonte vuole essere un laboratorio epistemologico per praticare, come si conviene all’arte, il territorio mobile dell’eterotopia. In pari tempo esso asseconda il desiderio di sollevarsi in punta di piedi per osservare, con gli occhi chiusi, lo spazio necessario dell’utopia, forse l’unico luogo dove parlando altre lingue possiamo parlare la nostra.
Ermanno Cristini
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* Nell'immagine: Ermanno Cristini, Camminare l’orizzonte. Tempo perso/trovato, 2017, palla di palline di scotch di carta su chaise-longue trovata in loco, Madeinfilandia (AR)
Turner Point: Droni sulla nave negriera
di Gabriele Tosi
Su Amazon un drone con telecamera wi-fi si compra a meno di 100 Euro. Assicura riprese in alta definizione vantando una buona stabilità. Il distacco dello sguardo dal suolo è ormai una merce a basso costo per i più “fortunati” del mondo, buona per intrattenersi nei fine settimana a patto che la consegna del giocattolo avvenga nei giorni lavorativi precedenti al riposo. I dispositivi spenti, infatti, si spostano ancora sulle vie e nelle maniere tradizionali. Dall’alto ci fanno sapere che ci si sta adoperando per sorpassare questo problemino legato alle vecchie infrastrutture (stampanti 3d). Intanto i corrieri ringraziano, vivendo epuloni un’inaspettata età dell’oro che, alquanto ironicamente, sarà probabilmente l’ultima dell’era dei trasporti per come siamo abituati a pensarli.
Tutto questo per dire che da molto tempo la cultura occidentale, più o meno consapevolmente, ha barattato la presunta stabilità del soggetto che guarda (prospettiva lineare) con la presunta stabilità di ciò che è guardato. Assunto che l’utopia di ogni forma di sistema visivo prodotto dall’uomo comunitario sia quello di far proprio lo sguardo di Dio, legato in queste latitudini a quei simpatici tributi di onniscienza e onnipotenza, non sembra allora sbagliato dedurre che il vero problema non stia tanto in quel che vedono gli occhi, piuttosto in quanto e come riesce a vedere il cervello o, addirittura, lo spirito. Immaginando di poter percepire tutto il mondo all’istante e assecondando così la promessa di certe tecnologie, ci troveremo profondamente insoddisfatti quando al ristorante indiano presso cui siamo già andati a cena con Street View, ci offriranno del sushi di dubbia qualità: è proprio un peccato che il “nostro cervello” non si aggiorni abbastanza frequentemente.
Da aggiungere al problema esposto grazie a questo racconto di bassa lega, un’infinita lista di problemi più seri, in particolare quello legato al tempo per come lo conoscevamo. La rinuncia al suolo è infatti un secco no all’oggettività degli individui e, in maniera più complessa, un irrimediabile diniego alla condivisione di un tempo storico. Non è certo un caso se ci troviamo impegnati a condividere il presente nel tentativo di ricostruire un ipotetico spazio-tempo comune, un quando in cui far succedere le cose che già stanno succedendo. Non è un caso se in molti, in Europa, vanno recuperando vecchissime ideologie territoriali e indipendentiste, sperando nella bussola di un’indefinibile e arcaica cultura condivisa. Purtroppo il sentirsi perduti non è un sentimento che si risolve con la geografia e con il buon vicinato di nonni e nipoti. Riguarda piuttosto la nostra capacità, ancora tutta da sviluppare, di abitare comunità mobili, impermanenti e non classicamente strutturate. La letteratura del naufragio è, in questo senso, un romanzo di formazione per nuove società da costruire su spiagge assolate, ai margini di isole deserte.